Videozoom San Marino
Videozoom San Marino
Galleria Sala 1 Roma 6 novembre 2007
Non ci può essere libertà se non impegnata in un mondo resistente
J.-P. Sartre
Il corpo utilizzato come linguaggio artistico ha una storia antichissima che solo di recente – a partire dalle avanguardie del XX secolo – è stata recuperata e resa centrale nella pratica e nella speculazione teorica e creativa.
Dalle foto di Egon Schiele alle esperienze dadaiste – quindi dalle acconciature, dai travestitismi, dalle torsure di Marcel Duchamp -; dagli interventi concettuali di Piero Manzoni fino alle recenti esperienze di Yasamusa Morimura e Matthew Barney: i nomi che si potrebbero fare d’altronde sono tantissimi e tutti inequivocabilmente appartenenti alle leggende dell’arte.
L’utilizzo del corpo ha ripreso vigore e non accenna a diminuire nel suo porsi sempre di più quale luogo privilegiato della sperimentazione creativa.
Tutto questo – s’è detto – ha una storia antica almeno quanto la storia dell’uomo.
Ma il corpo – il rapporto dell’uomo con il proprio corpo – ha vissuto delle modificazioni sostanziali nel tempo ed una differente centralità speculativa, testimonianza delle intercorse modificazioni sostanziali del vivere e del concepire le possibilità identitarie dell’Esserci. Nel Fedone Platone affermava che “..ci avvicineremo tanto più al sapere tanto meno avremo relazioni con il corpo e comunione con esso..”. E’ da questo momento – da queste parole – che la filosofia occidentale trovò il suo principale e più fecondo attivante. Parole che hanno significato l’opposizione della filosofia alla tragedia. Un’opposizione condotta dalla filosofia attraverso un’operazione trasvalutativa, con l’obiettivo di sostituire la tragedia quale luogo privilegiato della verità. Tutti i sensi ed i significati che il corpo aveva avuto nella mitologia greca e nella rappresentazione per immagini che ne faceva il teatro tragico, venivano con decisione collocati da Platone al grado più basso della conoscenza. Da questo momento in poi – da Platone in poi e soprattutto con il cristianesimo – l’uomo occidentale venne riassunto in un’unità ideale, la psiche, all’interno della quale riconobbe con esclusività se stesso. Ciò provocò l’allontanamento progressivo dalle ambivalenze del corpo, dalla sua importanza nel determinare identità e sensi.
A questo punto viene da chiedersi come mai e a partire da che cosa l’esperienza linguistica e speculativa ha finito per considerare se stessa nel dubbio protervo della finzione? E quindi come mai tutto questo interesse rinnovato per il senso del corpo?
La risposta non è poi così complessa. O meglio le ragioni essenziali – vista anche la prospettiva storica e l’intensità delle speculazioni in merito che si sono venute a determinare – possono essere identificate senza troppe difficoltà. Per rimanere nel nostro ambito d’indagine, tali ragioni venivano poste sottilmente ma con chiarezza da un maestro della critica d’arte come fu Giulio Carlo Argan – nell’affermazione sia pure fugace “l’immagine dell’artista-corpo, tra le intossicazioni di Niezstche, non è la più nociva..” – e riproposte – citando questo commento di Argan con evidenza e in un discorso strettamente e specificatamente condotto attorno al tema in questione – da Lea Vergine nel suo importante “Il corpo come linguaggio” del 1974.
E difatti il corpo – di nuovo diffuso ed esposto attraverso i molteplici e ricchissimi valori di senso alternativamente politici, sociali, psicologici -, il corpo che si fa di nuovo tragico, il corpo capace di porsi di nuovo quale luogo della rappresentazione originaria, si deve al peso sentito e accolto – e per questo rivoluzionario – dell’ammonizione nietzschiana: “vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza”. In tali parole – è chiaro frutto di una preparazione precedente e di un’urgenza irreprimibile in seno a tutta la filosofia occidentale – risiede quel mutamento epocale di cui in precedenza si domandava.
Gli artisti in questione ragionano su tutto ciò, servendosi del video soprattutto come documento di un’azione ad un tempo corporale e mentale, nella convinzione che sia oramai necessario aggirare gli annosi dualismi epistemologici.
Artisti che – nel solco della strada aperta dai troppo grandi prima citati – amplificano la radice duchampiana, svincolando la propria opera dalle limitazioni della presenza oggettuale, dalla piacevolezza che da questa deriva, insomma dal bel materiale come concetto e come scopo realizzativi. Per operare invece con la volontà opposta di attivare una situazione emozionale privilegiata e simbolica, riscattando l’aspetto mitopoietico venuto meno con tutta l’arte programmatica, computerizzata, cinetica ma anche pittorico artigianale.
Una volontà di mettere in campo la possibilità di riuscire ancora ad interpretare il mondo in chiave misterica e allusiva.
Antonio D’Agostino ad esempio – personaggio di spicco del gruppo per i suoi trascorsi comuni ad alcuni dei protagonisti delle arti performative e concettuali degli anni Sessanta – ha operato e opera con atteggiamento neo dadaista sul video, recuperando e scegliendo pellicole che accumula in montaggi manipolati e complicati nel senso. I suoi primissimi piani prolungati su aspetti corporali rivelano l’importanza dell’ammonimento nietzschiano di dovere ascoltare e interpretare la voce del corpo, per riuscire così finalmente a capire il senso della terra.
Maurizio Cesarini opera combinando frammenti di immagini private con riferimenti colti, il tutto per un’amplificazione simbolica di contenuti esistenziali e densamente onirici. Egli identifica nella mutazione, nel travestitismo, nella necessità dell’adattamento e nel dover cambiar forma, l’identità privilegiata dell’umano. Le sue performance della metà degli anni Settanta si inseriscono in questo ragionamento. I recenti lavori vivono invece di una rarefazione e d’una splendida essenzialità formale anche se con la stessa intensità di temi trattati.
Del tempo e dello spazio – di queste complesse categorie – narra invece Emiliano Zucchini. Nel suo video “3 attimi” l’aprire e il chiudere asincronico della cerniera, da parte dello stesso soggetto rispetto all’andamento stabilito dagli orologi soprastanti, hanno l’obiettivo di confondere e di complicare l’idea stessa di tempo. Nel video “Tratto da una storia vera”, il medesimo concetto viene espresso in maniera maggiormente metaforica. L’autore rappresenta l’atto del lavarsi le mani attraverso un’iperbolico e schizofrenico trattamento linguistico condotto con subitanee accelerazioni e repentini passaggi a rallenti.
Nico Macina nel suo “Esiste l’infinito?”, propone una questione irrisolvibile, appartenente al territorio della pura speculazione filosofica e poetica, ch’egli affida e propone con gusto ed ironia spiazzanti a persone comuni. Nell’organizzazione particolare dell’immagine – costituita da una serie di personaggi che si susseguono nel tentativo di risoluzione – l’autore pone come orizzonte il mare, contenitore fortemente simbolico e letterario di un affannarsi e d’un tormentarsi senza soluzione né soddisfazione alcuna proprio dell’umano.
Poetico ma meno tragico il video “Believe”, dove una candela – metafora delle idee e del credere – sopravvive alla minaccia delle turbolenze esterne e contestuali.
In “Red moon cycle” e in “Per filo e per segno”, Michela Pozzi fa del proprio corpo il luogo dell’identità umana. Nella sua trattazione video lo pone come soggetto attivo pure poeticamente diluito, nella quotidianità e nell’esperienza, all’interno di un mondo circostante suscettibile di restringimenti e delimitazioni ma nonostante ciò così vasto e misterioso, inconoscibile nella sua essenza.
Il lavoro di Lionice Cola – che chiude questa breve rassegna delle presenze artistiche di questa mostra – anch’esso è centrato sul concetto di identità e corporalità.
In “Allo specchio” e ne “Il mio giardino”, i gesti rispettivamente del truccarsi – del femminile prepararsi e incontrare lo sguardo dell’altro – e dell’auscultarsi attraverso la presa di contatto con il corpo dell’altro, sottolineano la necessità di un recupero dell’emozionalità e della cura nelle relazioni e nella comunicazione tutta.
E’ proprio a partire da questa posizione che – ci fa presente l’autrice e con lei in coro sia pure diverso tutti gli artisti intervenuti – solo sarà possibile ritrovare un’idea forte di noi.
Gabriele Tinti
