43°56’11,77″ Nord Mondi da fare
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53^ Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia – 7 giugno – 22 novembre 2009
Padiglione 17 – Isola di San Servolo – Venezia
CATALOGO:
OPERA: M. I love you!
Che genere di struttura è quella che Nico Macina ha fotografato esplorando i dintorni di Berlino?
Probabilmente il tendone di un parco giochi abbandonato.
O semplicemente un residuo, come direbbe Gilles Clément. Così mi vengono in mente in ordine sparso: certe immagini del luna park di Coney Island e ciò che quel luogo marginale rappresenta nell’immaginario su New York; le foto di Bernd e Hilla Becher; la Bubble House di Tacita Dean; il recente lavoro sui bunker e la villa dei sogni di Guido Guidi (anche lì, in quello scatto del 1971, la casualità di una scritta, di un’insegna, segnava l’atmosfera di un’immagine); la Mirabilandia di Marco Neri, visione astratta ed invernale del noto parco di divertimenti. (Poi se osservo il tendone di M. I love you!, penso che potrebbe essere visto anche come un mostruoso animale metallico, forse un grande insetto – anche, perché no, uno dei ragni di Louise Bourgeois, ma in un certo senso come “vestito”, “agghindato a festa”).
Ecco, il lavoro di Nico Macina sembra contenere alcuni di questi rimandi ma produce uno scarto. L’immagine suggerisce le traiettorie di un doppio movimento: quello di un romantico disfacimento, con la terra che inghiotte, avvolge, assimila e, come una forza contraria, quello di una spinta, di una crescita immaginaria, di un’escrescenza (il paesaggio qualche volta si pavoneggia e può mettersi a fare la ruota, mi disse una volta un artista). Così qualcosa trascina questa immagine fuori dalla retorica della rovina, della rovina nel paesaggio, della decadenza intesa come consunzione di ciò che fu spazio antropico. La vitalità della forma in disfacimento è poi forse tutta contenuta in una frase (che dà anche il titolo al lavoro), quel M. I love you! che trasforma il tendone in una “esuberanza del paesaggio”, in un possibile dono, un gigantesco fiore. In una serie fotografica di qualche tempo fa (Bbetween) Nico Macina ritraeva alcuni suoi amici imprigionandoli tra due piani dell’immagine (uno “tattile” e “di superficie” che simulava tracce e difetti specificatamente mediali – come riflessi, polvere, ditate e graffi sull’obbiettivo – rendendo inevitabile la sfocatura delle figure, e uno sfondo di motivi decorativi volutamente dozzinale, come da “tovaglietta della nonna”).
Nel caso di M. I love you! adotta invece un punto di vista fortemente ravvicinato che taglia fuori dal campo visivo gran parte dell’orizzonte e del paesaggio circostante (forse un altro modo per prendere le distanze da quella retorica della rovina di cui si diceva prima). Questo avvicinamento, questa prossimità dello spettatore all’elemento architettonico implica ancora una volta la compresenza di almeno due livelli distinti. Quello di una superficie tattile in primo piano, con le macchie nerastre, le pieghe, le scoloriture del tempo e con la vegetazione che preme ai bordi del tendone.
E quello invisibile di un dentro/dietro la struttura architettonica, dove immaginare e idealmente collocare la presenza di forme di vita appartate.
Davide Ferri
